Cos’è la sindrome del successo apparente? Quando raggiungere gli obiettivi non ti rende felice

Hai mai sentito quella sensazione strana dopo aver finalmente ottenuto quello che volevi da mesi? Quella promozione che aspettavi, quel riconoscimento che desideravi, quel progetto che hai portato a termine con successo. Invece di sentirti al settimo cielo, però, c’è come un vuoto. Un “e adesso?” che ti lascia più confuso che soddisfatto. Bene, non sei l’unico. Quello che stai vivendo ha un nome: la sindrome del successo apparente.

Quando il successo ha il sapore di una pizza fredda

Prima di tutto, sgombriamo il campo da fraintendimenti: non stiamo parlando di una diagnosi che trovi scritta nei manuali di psichiatria accanto alla depressione o ai disturbi d’ansia. La sindrome del successo apparente è più che altro un pattern comportamentale che gli psicologi hanno iniziato a notare sempre più spesso, soprattutto in questa epoca di Instagram e LinkedIn dove tutti sembrano vincenti 24 ore su 24.

Questo fenomeno è strettamente collegato al workaholism moderno: costruiamo la nostra identità esclusivamente sui risultati che otteniamo, dimenticandoci completamente di chi siamo quando non stiamo “performando”. È come se fossimo diventati degli smartphone umani: funzioniamo solo quando siamo connessi al riconoscimento esterno.

Il problema è che quando raggiungi finalmente quell’obiettivo che ti teneva sveglio la notte, scopri che la sensazione di soddisfazione dura quanto un gelato al sole di agosto. E poi? Poi devi ricominciare da capo, alla ricerca del prossimo traguardo che ti faccia sentire “abbastanza”.

Alfred Adler aveva già capito tutto (nel 1927)

Quello che stiamo vivendo oggi, in realtà, Alfred Adler lo aveva già descritto quasi un secolo fa. Questo psicologo austriaco aveva intuito che spesso costruiamo una facciata di successo per compensare un profondo senso di inadeguatezza che ci portiamo dietro dall’infanzia. Nel suo lavoro “Understanding Human Nature” del 1927, Adler parlava di complesso di inferiorità – quella sensazione di non essere mai abbastanza che ci spinge a cercare conferme continue nel mondo esterno.

È come indossare una maschera brillante e patinata: tutti vedono il tuo successo, ma tu, dietro quella maschera, ti senti ancora quello che aveva paura di non essere accettato. La distanza tra l’immagine che proietti e quello che senti davvero può diventare così grande da sembrare un abisso.

Secondo gli studi sulla dipendenza dal riconoscimento esterno, questo meccanismo affonda le radici nel nostro bisogno primordiale di approvazione, che si sviluppa fin dall’infanzia. È come se avessimo imparato che per essere amati dobbiamo essere “bravi”, e da adulti abbiamo tradotto “bravi” con “di successo”.

Il tuo cervello sul successo (è più complicato di quanto pensi)

Qui le cose si fanno interessanti dal punto di vista scientifico. Volkow e Morales, in uno studio pubblicato su Cell nel 2015, hanno dimostrato che il nostro cervello reagisce ai riconoscimenti e ai successi attivando lo stesso sistema di ricompensa delle dipendenze. Sì, hai sentito bene: il successo può letteralmente diventare una droga.

Quando ricevi un complimento, un riconoscimento o raggiungi un obiettivo, il tuo cervello rilascia dopamina – la stessa sostanza che viene rilasciata quando mangi cioccolato o quando ricevi un like sui social. Il problema è che, come tutte le dipendenze, hai bisogno di dosi sempre maggiori per ottenere lo stesso effetto. Un complimento non basta più, ti serve una promozione. Una promozione non basta più, ti serve un riconoscimento pubblico. E così via.

È quello che E.T. Higgins chiamava “discrepanza del sé” nella sua teoria del 1987: quando c’è troppa distanza tra chi pensi di dover essere e chi sei realmente, la tua salute mentale ne risente. È come vivere in un costante stato di jet lag emotivo.

Come capire se sei nella trappola del successo apparente

Riconoscere questo pattern non è facile, soprattutto perché dall’esterno tutto sembra perfetto. Ecco alcuni segnali che potrebbero accendere una lampadina:

  • Il vuoto post-vittoria: Hai ottenuto quello che volevi, ma invece di champagne e festeggiamenti, senti solo un “meh” esistenziale
  • La sindrome del criceto: Sei sempre in corsa verso il prossimo obiettivo, senza mai fermarti a goderti quello che hai raggiunto
  • L’autostima yo-yo: Quando le cose vanno bene ti senti un supereroe, quando rallenti ti senti un fallito totale
  • La paura del “non abbastanza”: Nonostante i successi, c’è sempre quella vocina che ti dice che non sei ancora arrivato
  • L’allergia al relax: Anche in vacanza, senti l’ansia di dover fare qualcosa di “produttivo”

Non confondiamoci: non è la sindrome dell’impostore

Facciamo un po’ di chiarezza perché spesso si confondono due cose diverse. La sindrome dell’impostore, descritta da Pauline Clance e Suzanne Imes nel 1978, è quella sensazione di non meritare i successi che hai ottenuto, come se avessi ingannato tutti. È il classico “prima o poi scopriranno che non sono così bravo”.

La sindrome del successo apparente è diversa: tu sai di aver ottenuto quei risultati, li riconosci come tuoi, ma non ti danno la soddisfazione che ti aspettavi. È la differenza tra “non merito questo successo” e “ho questo successo ma non mi rende felice come pensavo”.

Sono due facce della stessa medaglia del disagio moderno, ma con meccanismi psicologici diversi. Una è la paura di non essere abbastanza, l’altra è la delusione di essere abbastanza ma di non sentirsi comunque soddisfatti.

Quando il workaholism diventa il tuo migliore amico (e peggior nemico)

Secondo lo studio di Andreassen pubblicato su International Journal of Environmental Research and Public Health nel 2021, il workaholism e la sindrome del successo apparente vanno spesso a braccetto. Quando il lavoro diventa la tua unica fonte di identità, finisci per perdere di vista tutto il resto.

È come se fossi diventato un personaggio bidimensionale: brillante nella performance lavorativa, ma completamente sottosviluppato in tutto il resto. Relazioni, hobby, tempo per te stesso – tutto passa in secondo piano rispetto alla prossima deadline o al prossimo progetto.

Il problema è che questa strategia funziona fino a un certo punto. Poi, come hanno dimostrato Maslach e Leiter nel 2016, arriva il conto: burnout, ansia, problemi nelle relazioni, e paradossalmente una bassa autostima mascherata da sicurezza esteriore.

La società dello “show-off” perpetuo

Non aiuta il fatto che viviamo in una società che ci bombarda costantemente con il messaggio che successo uguale felicità. Jean Twenge e Keith Campbell nel loro libro “The narcissism epidemic” del 2009 hanno mostrato come la pressione sociale verso il successo esteriore sia diventata un fattore di rischio per il distress psicologico.

Social media, cultura aziendale, aspettative familiari: tutto sembra spingerci verso una gara continua al “chi ce l’ha più lungo” in termini di curriculum. Ma quello che questa narrazione non ti dice è che stai correndo su un tapis roulant: puoi correre quanto vuoi, ma non arrivi mai da nessuna parte.

Come uscire dal loop del successo insoddisfacente

La buona notizia è che riconoscere il problema è già metà della soluzione. Come hanno dimostrato Emmons e McCullough nel loro studio del 2003 su Journal of Personality and Social Psychology, esistono strategie concrete per ristabilire un rapporto più sano con il successo.

La prima cosa è riconnetterti con i tuoi valori autentici. Prenditi del tempo per riflettere su cosa ti faceva sentire vivo prima che il successo diventasse un’ossessione. Spesso, la risposta è sorprendentemente semplice: momenti di connessione umana, creatività, o semplicemente il piacere di fare qualcosa per il gusto di farlo.

Un esercizio potente è scrivere una lista di momenti in cui ti sei sentito davvero realizzato, non necessariamente legati al successo professionale. Potresti scoprire che erano legati a cose completamente diverse da quello che stai inseguendo ora.

La seconda strategia è praticare quello che i ricercatori chiamano “gratitudine presente”. Invece di essere sempre proiettato verso il prossimo obiettivo, impara a fermarti e apprezzare quello che hai già raggiunto. Non è un invito all’accontentarsi, ma a bilanciare ambizione e contentezza.

Quando è il momento di chiedere aiuto

Se ti ritrovi in molti di questi sintomi e senti che la situazione sta impattando significativamente sulla tua vita, potrebbe essere il momento di parlare con un professionista. Come confermato da Salvagioni e colleghi nel loro studio del 2017, la psicoterapia può essere estremamente efficace per affrontare workaholism, burnout e quella sensazione di insoddisfazione nonostante il successo.

Non c’è niente di sbagliato nel chiedere aiuto. Anzi, riconoscere i propri limiti e cercare supporto è probabilmente l’atto più intelligente che puoi fare. Molte persone di successo hanno beneficiato di un percorso terapeutico per ritrovare equilibrio e, soprattutto, autenticità.

Ridefinire il successo: la rivoluzione personale che nessuno ti racconta

Forse è arrivato il momento di fare una domanda scomoda: ma chi ha detto che il successo deve essere per forza quello che tutti si aspettano? Come hanno sottolineato Martin Seligman nei suoi lavori sulla psicologia positiva e Viktor Frankl in “Man’s Search for Meaning”, il vero benessere arriva quando allinei i tuoi obiettivi con i tuoi valori più profondi e il tuo senso di significato.

Per alcuni, il successo potrebbe essere una carriera brillante. Per altri, una famiglia serena. Per altri ancora, la possibilità di aiutare gli altri o di esprimere la propria creatività. Non esiste una definizione universale, ed è proprio questo il punto: deve essere tua.

La sindrome del successo apparente, in fondo, è un campanello d’allarme che ti sta dicendo: “Ehi, forse stai vivendo la vita che gli altri si aspettano da te, non quella che vuoi davvero”. E riconoscere questo può essere l’inizio di una rivoluzione personale molto più significativa di qualsiasi successo esteriore.

Perché alla fine, la domanda non è “Ho avuto successo?” ma “Sto vivendo una vita che mi rende davvero felice?”. E la risposta a questa domanda non la troverai in nessun riconoscimento esterno, ma solo guardando dentro di te.

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