Senti un boato e subito cerchi il telefono per registrare? Ecco cosa succede davvero nel tuo cervello secondo la psicologia

Perché dopo un’esplosione diventiamo tutti reporter: la psicologia dietro il bisogno di raccontare

Quando un boato squarcia l’aria, come quello avvenuto recentemente a Roma in via dei Gordiani, il caos che segue è spesso meno assordante, ma molto più virale. Video, messaggi vocali e post sui social si moltiplicano a una velocità impressionante: “Ho sentito tutto tremare”, “Sembrava un terremoto”, “La mia finestra ha vibrato fino a Centocelle”. È quasi automatico: sentiamo il bisogno irrefrenabile di testimoniare, raccontare, cercare conferme. Ma perché?

Il motivo è un mix potente di biologia cerebrale, dinamiche sociali e meccanismi digitali. Quando percepiamo un pericolo improvviso, il nostro cervello primordiale entra in azione. L’amigdala, responsabile delle risposte emotive e della percezione del pericolo, agisce in frazioni di secondo per attivare gli allarmi interni, attivando una sequenza automatica di sopravvivenza. E questa risposta, nell’era degli smartphone, include anche la condivisione.

Un istinto ancestrale aggiornato ai tempi moderni

In tempi remoti, chi riconosceva un pericolo aveva l’obbligo di condividerlo con il gruppo per proteggere tutti. Oggi, quel gruppo è il nostro feed di Instagram o il gruppo WhatsApp di quartiere. Raccontare è parte del nostro modo di affrontare il trauma, ma anche di sentirci in connessione e rilevanti.

Il bisogno di raccontare è collegato a funzioni evolutive con radici profonde. Secondo l’antropologo Robin Dunbar, gli esseri umani hanno sempre utilizzato il “grooming sociale” – ovvero lo scambio di racconti – per rinforzare i legami. E oggi, quel grooming passa tramite like, condivisioni e commenti.

I social ci danno voce in tempo reale, ci permettono di condividere emozioni forti e ci fanno sentire meno soli nei momenti di incertezza. Dietro ogni video girato con il cellulare, c’è un mix di bisogni intrecciati:

  • Confermare la realtà – capire se gli altri hanno vissuto lo stesso evento
  • Elaborare lo shock – mettere in parole un evento aiuta a processarlo emotivamente
  • Creare connessione – la condivisione costruisce senso di appartenenza
  • Dimostrare la propria presenza – “Io c’ero, ho vissuto quel momento”

Perché le versioni si contraddicono? Colpa della memoria (e del nostro cervello)

Quando tutti raccontano, le narrazioni si moltiplicano. E spesso, si contraddicono. C’è chi ha sentito un’esplosione, chi ha visto fumo nero, chi ha visto dei lavori in corso. Il nostro cervello, però, non è una videocamera: la memoria è creativa, non fotografica. Lo psicologo Frederic Bartlett lo spiegava già negli anni ’30: ogni volta che raccontiamo un evento, lo modifichiamo senza rendercene conto.

Succede perché il cervello cerca sempre di trovare un senso, anche quando ha informazioni incomplete. Ecco perché molti riportano:

  • Versioni semplificate – si eliminano dettagli ambigui
  • Ipotesi rassicuranti – si cerca una spiegazione “logica”
  • Interpretazioni culturali – si usano modelli mentali già noti per decifrare l’ignoto

Questo meccanismo di “riempimento dei vuoti” è anche ciò che alimenta la diffusione di disinformazione involontaria. Quando la realtà è confusa, riempiamo gli spazi mancanti con intuizioni, supposizioni, ricordi distorti – e li postiamo come verità.

Competenza percepita: sentirsi importanti nella rete

Una motivazione potente che ci spinge a condividere per primi è il desiderio di sentirsi informati, utili, intelligenti. Questo bisogno di autoefficacia muove molte delle nostre azioni online. Lo dimostra il lavoro del premio Nobel Daniel Kahneman: preferiamo narrazioni semplici e coerenti, anche se sono lontane dalla realtà, perché danno sollievo mentale.

Quando postiamo qualcosa in anteprima, riceviamo attenzioni, reazioni, complimenti. E questo rinforzo nutre il nostro senso di competenza e controllo, anche se – purtroppo – la fretta può compromettere l’accuratezza.

I social amplificano tutto: emozioni, errori, adrenalina

Gli algoritmi dei social sono programmati per premiare ciò che genera reazioni immediate. Breaking news, emozioni forti, immagini impressionanti: tutto ciò che stimola la sorpresa o la paura ha enorme potere virale. Questo porta spesso a una corsa a chi grida più forte, più in fretta, più a effetto.

Uno studio del MIT ha rivelato che le fake news si diffondono su Twitter sei volte più velocemente delle notizie vere. E spesso non è per malafede: il cervello umano è attratto dalle novità e dalle emozioni intense. L’urgenza batte la verifica.

In più, il rilascio di dopamina – la sostanza chimica della gratificazione – rende la condivisione quasi “premiante”. Ogni like è una piccola iniezione di piacere. Ogni commento conferma che siamo stati visti. È così che si innescano loop virtuosi (o viziosi) di ipercondivisione.

L’infodemia emotiva: troppa informazione, poca chiarezza

Il nostro cervello ha limiti di elaborazione. Ogni giorno siamo bombardati da migliaia di input, e solo una minuscola parte riesce a superare il filtro dell’attenzione consapevole. Questo eccesso di stimoli crea confusione e ansia, soprattutto in situazioni di emergenza, dove l’incertezza regna e ogni dettaglio sembra cruciale.

E allora, per sentirci meno vulnerabili, costruiamo storie coerenti con le poche informazioni che abbiamo. Peccato che quelle informazioni, spesso, siano sbagliate. E così, una buona intenzione si trasforma in disinformazione condivisa.

Come difendersi dal caos digitale? Con buon senso e lentezza

In un’epoca in cui chiunque può diventare reporter nel giro di cinque secondi, serve una nuova forma di alfabetizzazione emotiva e digitale. Non per censurare, ma per scegliere meglio. Basta poco, ma serve costanza:

  • Fermarsi un attimo prima di postare – chiedersi: è vero? è utile? è necessario?
  • Cercare versioni multiple – la verità è spesso nella somma di tante verità parziali
  • Riconoscere le emozioni – se qualcosa ci colpisce troppo, è un buon motivo per non fidarsi subito

Le parole possono unire: raccontare può anche essere empatia

Il desiderio di condividere non è solo un impulso individualista. In tante situazioni, i social diventano luoghi di solidarietà e mutuo soccorso. Raccontare serve anche a connettere, ad accogliere, a consolare. Quell’urgenza iniziale può trasformarsi in un gesto collettivo che ricuce dopo lo strappo.

Ed è in quei momenti che la rete dà il meglio di sé.

Siamo tutti umani, ancor prima che utenti

Raccontare ci ha salvato, da sempre. Ci ha fatto sopravvivere, evolvere, ricordare. Ma nel mondo di oggi, quel potere va usato con attenzione. Perché ogni storia che diffondiamo contribuisce a scrivere la realtà. Dietro ogni post, un essere umano. Dietro ogni click, una responsabilità.

Cosa ti spinge a raccontare un evento shock?
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